La punteggiatura nell’opera Caproniana

Premessa #2  Se provaste ad aprire (e vi consiglio di farlo), a caso, Il conte di Kevenhüller di un certo Giorgio Caproni, senza conoscere – presupponiamo – l’opera ed il suo autore, notereste una particolare mise en page del testo; se vi soffermaste a leggere qualche componimento, vi accorgereste di un uso frequente, spasmodico, di segni grafici che frammentano il discorso, i molteplici discorsi, producendo – incrementandone – una forte ambiguità.

I segni di interpunzione sono diventati la mia scusa per un tentativo di analisi dell’opera, delle sue tematiche e della sua enigmatica bellezza.

Continuo a postare i capitoletti della mia tesi.  Qui troverete la prima parte. Continue reading

Why you should watch Fleabag [mini review]

I just wanna cry. All the time,” confessed the star of Fleabag to a character played by Hugh Dennis, in one touching moment of the series.

We call her Fleabag (we never know her real name, as is the case with many other characters), she is a “greedy, perverted, selfish, apathetic, cynical, depraved, morally bankrupt woman”- by her own admission. 

In her thirties, she is struggling with life (who isn’t?), and the show brilliantly focuses on human nature’s complexity. 

In the aftermath of a recent trauma, we see her daily effort to deal with life, but mostly with herself.

She lives in London where she runs a little cafe that she opened up with her best friend. Surrounded by a bunch of peculiar characters, we see Fleabag interacting with her dysfunctional family: the babbling father, the passive aggressive stepmother, the uptight sister, the slimy brother-in-law. 

In a family environment where feelings are repressed and left unsaid (the father, literally, can’t finish a sentence), she turns on her self-destructive behaviour.

Behind the nonchalant act played by the protagonist, in some heart-breaking moments the characters open up and we realise they are in pain.

Breaking the fourth wall helps to create a special connection with the viewer, so that we start feeling for this wrecked character from the very beginning.

Originally a play, Fleabag was adapted into a one season TV show, but following its success, writer Phoebe Waller-Bridge was pushed for a second season.
The main character and creator of the show, thanks to the series she won 6 Emmys Awards.

Hilarious and hurtful, brilliantly written and directed, every 25 minutes episode will give you a cocktail of emotions.

The two seasons are now available on BBC iPlayer and Amazon Prime.

Cinque Stelle, svegliatevi! Salvini è pericoloso

Ho voluto esprimere la mia preoccupazione verso l’incontrastata “svolta Salviniana”, e qualche giorno fa ho scritto una breve lettera ad un quotidiano italiano. Così, per unirmi al coro dei preoccupati.

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Scrivo per esprimere il mio disappunto, la mia grande delusione, ma soprattutto preoccupazione, per come il partito dei Cinque Stelle sta gestendo la situazione di governo con la “non-alleata” Lega. Di Maio è semplicemente imbarazzante nel suo ricercare parole politicamente corrette e diplomatiche (e stupide) per mantenere un’apparente pace in questo governo ibrido. Il che potrebbe anche andar bene, se non fosse che Salvini fa e dice cose indifendibili, imbarazzanti, vergognose.

Ci sono cose che prescindono da opinioni personali, politiche e quant’altro. Il rispetto per gli altri esseri viventi (uso questo termine generico perché non voglio includere solo gli esseri umani) viene prima di qualsiasi politica e personale punto di vista.

Nel nostro caso, un partito che non esprime chiaramente il proprio rifiuto verso questa forma subdola di razzismo ed intolleranza di cui Salvini si fa portavoce ogni giorno, è complice e mai avrà il mio appoggio.

Matteo Salvini è un individuo pericoloso. I Cinque Stelle, o almeno la direzione generale del partito, pur di mantenere in vita il governo ed evitare l’incerta situazione che un suo collasso causerebbe, lo lasciano fare, o, nel peggiore dei casi, lo assecondano, diventandone complici. Di Maio col suo sorrisino strafottente del cavolo (non si capisce cosa ci sia da ridere) al momento mi pare solo una figura grottesca.

Salvini è ancora più pericoloso di un Berlusconi, perché mentre con Berlusconi la corruzione è morale e assopisce le coscienze, qui siamo davanti ad un subdolo incitamento all’odio nei confronti di chi non fa parte di un noi (prima i padani, ora gli italiani) e viene considerato l’altro, il diverso, l’entità contro cui veicolare la propria rabbia.

Salvini usa le parole per aizzare istinti triviali che ci sono e ci saranno sempre, ma che non vanno assecondati; andrebbero invece analizzati e capiti.
Tutti noi se ci abbandoniamo agli istinti più grezzi diventiamo mostri. La nostra è una mentalità fascista ed è necessario uno sforzo di pensiero per non lasciarsi andare al piacere del disprezzo verso chi ci appare diverso. Lo sforzo continuo di rispettarci come individui nelle proprie differenze sta alla base di una società civile. Non si può avere un ministro dell’interno che si comporta da ultrà ed incita continuamente all’odio verso lo straniero, in nome di chissà quale italianità. Fa tanto ridere sentir parlare di “buonismo”, quando si tratterebbe di un minimo di civiltà.

Questa caccia all’immigrato e questo odio continueranno a sfociare in episodi di intolleranza e violenza. Dove andremo a finire? Fa spavento immaginarlo.

Non accorgersi del pericolo delle parole e delle azioni di Salvini è un grave e stupido errore. Io chiedo ai Cinque Stelle dotati di un certo buon senso di capirlo, visto che è già tardi. Svegliatevi! L’assopimento della ragione sta creando mostri.

 

[“Come away from the roadside”] Johnny Cash incontra Don Freed

In questo video assistiamo all’incontro tra Johnny Cash e un giovanissimo musicista di nome Donald Freed. Siamo nel 1969 e l’incontro avviene nel backstage del Country Music Association Awards.

Il video è estrapolato da “The Man, His World, His Music“, documentario che cattura Johnny Cash in una serie di filmati. Guardandolo, sono rimasta colpita dalla parte in cui avviene la performance di questo giovane cantautore, e mi son messa a cercare maggiori informazioni.

La canzone si intitola “Come away from the roadside”. Qui di seguito potrete leggerne il testo:

Come away from the roadside,
your feat, it is done.
The battle is over,
you have both lost and won.

For the drums, they’re but an echo,
your trumpet players die.
Come away, come away
and know how hard you tried.

The King, he holds the aces,
he has not held your hand.
The Queen, with her embraces,
you did not understand.

And the seeds that have fallen,
along the weary hobo’s trail,
and just as they have fallen,
don’t let yourself be felled.

Come away from the roadside,
your spirit’s, crimson string.
There are many among us,
who stumbled in the same.

But there’s something that cries out for you,
that you must heed the dream,
if you are to be what you wish to be,
then be what you must be.

La canzone è stata scritta per un amico “con alti ideali” , spiega lo stesso Don Freed a Jonnhy Cash introducendola, che – possiamo immaginarlo dal testo – si è trovato a scontrarsi col mondo, a combattere come altri [“There are many among us who stumbled in the same“] una battaglia già persa; e, tuttavia, viene esortato dall’autore ad inseguire questi suoi sogni, i suoi ideali; ad essere ciò che deve essere: “if you are to be what you wish to be, then be what you must be.”

Ho trovato questa performance toccante. La canzone è melanconica quanto basta, con un pizzico di triste speranza; orecchiabile e ben scritta. Il signor Cash riconosce un talento in questo giovanotto, e lo sentiamo proporgli un’audizione.

Anche in un articolo del New York Times del 1970, “Screen: Johnny Cash Onstage and Off” di Roger Greenspun, ne viene riconosciuto il valore:

The best sequence in “Johnny Cash: The Man, His World, His Music” doesn’t feature Cash, or June Carter, or even Mother Maybelle or the Tennessee Three. Rather, it introduces a young man who is not, I believe, man tioned in the screen credits.

His name is Don Freed, and he auditions two songs for Cash (“Bank of Mari posa” and “Come Away from the Roadside”). He plays the harmonica and the guitar, and he sings in a tight, plead ing voice that seems to know all the conventions and truths of sadness. I think he is extraordinary, and if there were no other attraction (there are many), he would be reason enough for seeing the movie.

Viene definito straordinario; addirittura la sequenza in cui appare viene considerata la migliore del documentario.

Ma quindi questo ragazzino avrà fatto carriera, penso… è tipo un Bob Dylan.

Cerco allora più informazioni sul web. E cosa trovo?
Poco; quasi nulla.

Su Wikipedia leggo che Jon Freed è un musicista canadese la cui carriera inizia nel 1966. C’è una lista di album, alcuni pubblicati solo in cassetta; il primo, realizzato con la Capitol, non uscì mai.

Ha collaborato con Joni Mitchell (con cui pare abbia avuto una relazione) nella realizzazione dell’album “Taming the tiger” ed è co-autore di una delle canzoni, “The crazy cries of love”.

A partire dagli anni 90 la sua carriera di musicista sembra essere virata verso l’insegnamento e progetti educativi.

Fine. Due notizie in croce e nessuna esaltante carriera.

Su Spotify nemmeno esiste il nome; solo su YouTube trovo alcuni video, ma niente che soddisfi la mia curiosità. Anzi.

Cos’è accaduto all’album non pubblicato? Ha registrato in studio le canzoni fatte ascoltare al signor Cash? perché non trovo più canzoni da ascoltare?

E, soprattutto, come mai non ha ottenuto maggior credito?

Mi domando che fine faccia il talento quando non raggiunge sbocchi o circostanze favorevoli che lo rendano fruibile ad un ampio pubblico.

Magari il signor Freed è felice e soddisfatto della sua carriera, ma noi non potremo beneficiare della sua musica e dei suoi testi.

E nulla, per adesso mi consolo mettendo “Come away from the roadside” nel mio iPod, ma non mi arrendo e tenterò di trovare i suoi album.

A little bit of sweet nothing – Il discorso di Boris Johnson sulla Brexit non chiarisce nulla.

Triste sarebbe un paese senza comici. E nel mondo politico non ne mancano; ogni paese ha i suoi. In Inghilterra, uno dei più popolari è Boris Johnson.

L’altro ieri, il 14 Febbraio, l’ex sindaco di Londra, attuale segretario di stato per gli affari esteri, ha intrattenuto gli spettatori e i giornalisti con tante belle e vaghe parole su come, pare, la Brexit non porterà a nessun cambiamento. E, allora, ci si chiede cosa l’abbiano votata a fare.

Ma la stampa Britannica non è quella Italiana (la grande maggioranza almeno, contenta di annuire servilmente e bersi il nulla) e incalza il segretario con una serie di domande (anche provocatorie) volte a capire i punti pratici della questione: cosa comporterà, in pratica, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea? Quali saranno i cambiamenti effettivi? Where is the clarity? 

Perché ad oggi, 16 Febbraio 2018, tutto resta ancora vago e confuso.

Il discorso di Boris Johnson mirato a tranquillizzare gli animi dei remainers – di chi la Brexit, oh, mica la voleva (ricordiamo, il 48.11% dei votanti) – risulta “a bit of this, and a bit of that, and a bit of nothing“, come ripeteva Yasmin Alibhai-Brown, giornalista di “The I”, ieri mattina su Sky News citando un articolo di Jane Merrick (“A Valentine’s message of sweet nothing“). Insomma, l’ex sindaco di Londra, col suo modo di fare giocoso e buffo, non centra le questioni pratiche e rimane sulla vaghezza del nulla.

Brexit is about going global” e l’obiettivo non è quello di diventare “più insulari” – tiene a precisare Boris Johnson; l’UK continuerà ad essere aperta come è stata fino ad ora, e non perché parte dell’Unione Europea. La Brexit è semplicemente una manifestazione di “historical national genius” (ah, e io che pensavo di xenofobia); della volontà di riappropriarsi della propria libertà economica e di “riprendersi il controllo”. Non c’è ragione di temerne i risultati.

Mr Johnson cerca di placare le “ansie” di chi vorrebbe un nuovo referendum, ed è a loro che principalmente si rivolge. Con la Brexit tutto resterà come prima, semplicemente senza le imposizioni dell’EU. “The Brexit can be grounds for much more hope than fear“.

Bellissima cosa, ma ad oggi non si capisce in che modo nella praticità dei fatti.

Insomma, così va avanti tutto il discorso. Boris Johnson elenca una serie di motivazioni, sempre piuttosto vaghe, sul perché niente di negativo succederà con questa uscita dall’Unione; ma nessuna soluzione pratica ai molti interrogativi che la Brexit comporta.

Nel dibattito mattutino del giorno dopo, a The View, su Sky News, Yasmin Alibhai-Brown fa notare come molti votanti Pro-Brexit speravano che avrebbero ottenuto l’abolizione dell’immigrazione; cosa di fatto non possibile.

Purtroppo, davvero, il voto a favore della Brexit sembra doversi leggere in quest’ottica. La campagna politica contraria alla Brexit non è stata intelligente e convincente. Fuori Londra ha vinto la paura, l’odio e il nazionalismo diffuso.

E non abbiamo bisogno di questi sentimenti che comportano una chiusura. In questo nostro particolare momento storico, in cui è facile abbandonarsi agli istinti più grezzi, alla paura e all’odio, abbiamo bisogno di unione. Contro il fanatismo religioso e politico – il fanatismo umano – è necessario uno sforzo di apertura.

Di certo l’uscita di un paese importante come il Regno Unito dall’Unione Europea, non sembra – checché se ne dica e quali saranno i risultati- dare un segnale in questa direzione.

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[Discorso completo di Boris Johnson: https://youtu.be/V-LEkBnyn5A ]

#brexit

Invito alla lettura: “Persepolis” di Marjane Satrapi

“Nella tua vita conoscerai parecchi imbecilli. Se ti daranno dei dispiaceri, pensa che è la loro stupidità che li induce a farti soffrire. Questo ti eviterà di ripagarli con la stessa moneta, perché non c’è nulla di peggio a questo mondo che il rancore e la vendetta…
Cerca di mantenerti sempre onesta e degna di te stessa.”

Finalmente sto leggendo “Persepolis”, la storia autobiografica a fumetti di Marjane Satrapi, Iraniana che ora vive in Francia.

Marjane Satrapi racconta della sua infanzia in Iran prima e dopo la “Rivoluzione culturale“, la pre-adolescenza durante la guerra, l’adolescenza lontana dal suo paese, l’età della maturità e delle scelte.

Credevate che il velo in Iran le donne lo avessero sempre indossato? Ebbene no, la cosiddetta “Rivoluzione culturale” ha radicalizzato i costumi ed imposto ferree regole alla popolazione, limitandone la libertà; e di fatto annientandola.

Seguendo la vita di Marjane, veniamo a contatto con l’assurda crudeltà degli uomini,  e percepiamo la solitudine, il dolore e la voglia di rivalsa della protagonista; capiamo quanto sia decisivo il momento della scelta, perché anche quando diciamo “non avevo scelta”, una scelta la facciamo sempre.

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Libro consigliatissimo: fa indignarsi e tanta rabbia; ma anche ridere, sorridere, commuoversi e, soprattutto, riflettere. Mi ha aperto un nuovo spiraglio su questioni di cui ho sempre saputo poco o nulla.

 

Proprio in questi giorni di proteste in Iran, voglio capire la storia di questo paese.
Per questo – e con l’intenzione di rendere questo blog più vivo (e utile) – mi rivolgo a voi lettori, anime pie che capitate per caso nei dintorni, e vi chiedo: che libri sull’Iran consigliate per approfondirne e capirne la storia?

Intermezzo casuale

Chiedo scusa a me stessa perché non mi prendo il tempo per scrivere.

Trovai E lì a guardarmi, con quegli occhi che avrebbe avuto solo alla fine della sua storia, quando non ci sarebbe stato più nulla da capire, ogni cosa inutile era già stata fatta, le cose non dette non avrebbero avuto più importanza e nulla sarebbe restato, se non il tempo, il tempo per morire; lì in quella vecchia casa dove era stata bambina; in quel garage dove da qualche parte stava ancora la sua bicicletta. Per l’ultima volta E avrebbe rivisto suo padre giocare, felice, fino a quando poi, tutto, sarebbe sfuocato nel sogno.

“Mi dispiace,” le dissi con dolore, “avrei voluto portarti in vita, ma non ho saputo farlo.”

Lei lì a non dire niente, solo a guardarmi con quegli occhi rassegnati e stanchi.

“Lo farai, un giorno,” finalmente disse, parlando come una vecchia amica. “Mi porterai in vita, nella tua vita – sarò la tua vita un istante –  e poi morirai anche te.”
“Non rimarrà niente così.”
“E cosa deve rimanere?”
“Una bella storia, una storia che emozioni,” dissi, ma con poca convinzione, triste per la mia incapacità.

Ed ogni cosa morirà nella mia mente perché io non sarò in grado di darle forma; oppure l’avrò pensata in punto di sonno e il giorno dopo dimenticata.

Come non scrivere un –

Quando ho intenzione di scrivere un articolo o saggio, o quant’altro comporti una ricerca impegnata, mi procuro libri, articoli, materiali che me lo hanno ispirato, e inizio a pasticciarli per rielaborare le idee.
So il contenuto che il mio saggio dovrà avere, ma ho bisogno di tempo e pazienza per ricercare altro materiale, altre fonti, e ideare una forma che veicoli in maniera chiara e “accettabile” – secondo i miei canoni estetici – il messaggio.
Così, seguendo -a causa di- questo criterio, accumulo articoli/saggi abbozzati, incompiuti che abbandono nella memoria virtuale del mio laptop. Ad esempio:

“Se questo è un giornalista” che dovrebbe interrogarsi sul ruolo del giornalista e il suo linguaggio, con particolare attenzione alla nostra Italia. I riferimenti che vi feci risultano ormai datati e sarebbe da rielaborare;

-“Heart of darkness, o, la Rosabud di Orson Welles” sul film che il noto regista, ritrovandosi impossibilitato a mettere in scena, rimpianse a lungo;

-“La vittoria di Don Abbondio” sull’ultimo bistrattato capitolo dei Promessi Sposi (idea che valutai per la mia tesi, tra l’altro, e scoprii effettivamente utilizzata da un mio collega);

-“Anna Karenina è una merda” disse Tolstoj insoddisfatto del suo romanzo russo.

E un bell’articolo scritto con odio:
-“Tutto il mondo è paese: sfatiamo il mito dell’Inghilterra. Lo schiavismo negli hotel a cinque stelle.

Così insomma sono morti, nello stesso istante in cui li ho pensati, tutti i miei potenziali saggi ed articoli. A causa di insufficienti nozioni per scriverli, citazioni a cui riferirmi e conoscenze a cui attingere, me li sono persi, li ho lasciati perdere. Sbruffona, ho pensato, che cosa vuoi scrivere senza leggere prima?

E niente, il blog che immaginavo vivo, stimolante, pieno di articoli interessanti, esiste solo nella mia testa, in potenza.
Ho una testa vivace, eh, piena di personaggi, idee, di se e inaspettati eventi, di dialoghi accesi, pensieri accartocciati, pensati male e poi buttati.

Brevissimo invito alla lettura: “Frankenstein, o il moderno Prometeo” di Mary Shelley

È sempre colpa dei genitori.

Questa è la storia di un padre che rigetta il figlio, di un uomo che divenuto Dio, un Dio ingiusto, crea Adamo e lo lascia solo.
È una storia terribile, d’orrore e d’angoscia, di separazione e di morte, ma anche d’amicizia e di viaggi, dominata da forti passioni descritte minuziosamente dalla capacità introspettiva dell’autrice.
Non si può non provare compassione per la creatura abbandonata a se stessa e detestare quanti la ripugnano; nè si può capire completamente il comportamento di Frankenstein che, insomma, poteva sforzarsi ed essere più comprensivo verso la “cosa” creata.
Ma se il dottore e la creatura fossero stati amici, bè, di certo la Shelley non avrebbe potuto scrivere la sua terribile storia.

L’umanizzazione del mostro, vittima e carnefice, rende complicato qualsiasi giudizio. E ci si domanda chi sia, dopotutto, il vero mostro. O, forse, chi non lo sia.

Libro che ha soddisfatto il mio bisogno estetico. Consigliatissimo.

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Riflessione personale (un po’ melodrammatica) sulla scrittura

Avevo dimenticato che la scrittura avrebbe potuto salvarmi.

Avrei dovuto riprendere a scrivere costantemente, cercando la forma ideale o una qualche qualsiasi vaga forma per esprimermi e liberarmi dal dolore. Le parole pur così forti, false, ingannevoli – e allo stesso tempo terribilmente vere- avrebbero potuto salvarmi dall’oscurità – no, dal bagliore del nulla che circonda la vita.
Avrei potuto creare mondi di senso, infinità nel quale muovermi, rappresentando poi, alla fine, anche là, la miseria dell’uomo.

Stavo morendo ogni giorno, stavo perdendo uno scopo. La scrittura mi avrebbe  davvero salvata? Con certezza non lo sapevo. Ma avrei potuto tentare di ricostruirmi un senso tra i segni neri lasciati sul bianco del nulla. Il senso lo inventa l’uomo; si inventa la vita, e ogni giorno io avrei inventato la mia, per sopravvivere, per cercare un piacere.

Non potevo lasciarmi prendere dall’angoscia, perché lì, nel momento in cui ogni castello cadeva, sentivo la fine e la morte, il senso mai avuto, la vacuità del tutto che è niente, che è vita, che è morte.

Non credevo nella vita, ma credevo meno nella morte, che è l’eterno nulla. Questa scintilla misteriosa che eravamo era più interessante della condanna al niente.

Avrei resistito fino alla fine, pensavo; avrei scritto per disvelare, tra falsità e inganni e trucchi, l’essenza dell’uomo, o forse la sua assenza; una qualche possibilità di senso, o quello che ci avrei trovato.

* Ho scovato questo semi-delirante sproloquio sulla scrittura tra le mie carte. Toh, l’avevo completamente dimenticato.
Ho deciso di pubblicarlo perchè trovo ci sia una disperata bellezza nella necessità di costruzione di senso, attraverso la scrittura, che credo condivisa –  anche inconsciamente – da chiunque avverta il bisogno di scrivere.